Comprendere il virus e i suoi effetti. Catturare la sofferenza silenziosa dei pazienti e l’abnegazione indiscussa degli operatori. Compiere questa impresa attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica nell’arco di un anno di pandemia. Uscirne con un senso non di paura, ma di ansia e di tristezza. E se qualcuno glielo chiede, lui risponde che “no, questa non è una guerra, perché il nemico non è stato mai visibile, fin dal principio”.
A parlare è Francesco Cocco, fotografo di fama internazionale che da febbraio 2020 è entrato in diversi ospedali dell’Emilia Romagna, tra i quali anche l’Azienda Ospedaliero Universitaria di Modena, per “capire cos’era questo virus e quali fossero i suoi effetti sulle persone”.
“Il progetto è nato tra il febbraio e marzo 2020 quando giunsero le prime notizie dalla Cina e quando ancora non si capiva cosa fosse di fatto questo virus che ci stava cadendo addosso”, racconta Cocco. “Nel frattempo si cominciò a parlare di Codogno e della prima zona rossa in Italia. Sembrava l’inizio di un percorso che non faceva intravedere la fine”.
“Da lì – continua Cocco che nella sua carriera ha girato il mondo anche come fotografo di guerra, dall’Afghanistan al Burkina Faso – nacque prepotente l’interesse per cercare di capire cosa stava accadendo. Da allora gli ospedali, soprattutto i reparti di Terapia Intensiva e le Covid Room, divennero la mia seconda casa”.
Quando gli chiediamo se sia cambiato qualcosa rispetto agli obiettivi che si era prefissato con questo progetto, il professionista risponde: “E’ molto difficile oggi riuscire a mettere a fuoco il concetto, perché nel corso del lavoro siamo stati in balia di un alternarsi continuo di emozioni e suggestioni. Uno degli aspetti più difficili per me, che solitamente sono persona molto “fisica”, era la difficoltà di mantenere la giusta distanza con le persone. Spesso ero vicino ai pazienti e mi capitava di scambiare uno sguardo fugace, il mio istinto era quello di toccare una mano, e il fatto di non poterlo fare trasformava la mia volontà di alleviare in sentimento di frustrazione”.
Negli stessi mesi, molti di coloro che conoscevano Cocco e la sua esperienza di fotografo di guerra, gli hanno rivolto la stessa domanda: se secondo lui combattere il virus fosse come combattere una guerra. “La metafora non è per nulla appropriata”, ha risposto. “Il nemico in questo caso non si può vedere, sono visibili soltanto i suoi effetti”.
Oggi, quando traccia un bilancio del lavoro, sottolinea: “Non ho mai avuto paura, piuttosto ho provato un profondo senso di ansia. Fu molto forte la sensazione di quando entrai per la prima volta in Terapia Intensiva. Ne seguirono un fortissimo sentimento di tristezza ed anche un po’ di frustrazione nel non poter fare nulla. Fui estremamente colpito dal lavoro degli operatori sanitari, dalla loro abnegazione, dalla loro elevata professionalità e competenza. Questo lavoro lo dedico anche a loro”.
Nato a Recanati nel 1960, Francesco Cocco iniziò la sua attività nel 1989 concentrandosi soprattutto sulle persone che vivono ai margini della società. È del 2002 il lavoro di documentazione sulle carceri, da cui hanno preso vita la mostra e il libro “Prisons” (Logos). Dal 2003 fa parte dell’agenzia Contrasto. Ha collaborato con MSF ad un progetto sull’immigrazione nel nostro paese. Ha girato il mondo dalla Cambogia all’Afghanistan al Burkina Faso concentrandosi sulle tematiche della violenza sulle donne e sui minori e sull’HIV
di Alessandra Ferretti
Nato a Recanati nel 1960, Francesco Cocco iniziò la sua attività nel 1989 concentrandosi soprattutto sulle persone che vivono
ai margini della società. È del 2002 il lavoro di documentazione sulle carceri, da cui hanno preso vita la mostra e il libro “Prisons”
(Logos). Dal 2003 fa parte dell’agenzia Contrasto. Ha collaborato con MSF ad un progetto sull’immigrazione nel nostro paese. Ha girato il mondo dalla Cambogia all’Afghanistan al Burkina Faso concentrandosi sulle tematiche della violenza sulle donne, sui minori e sull’HIV.